Quando si parla di suicidi tra le forze dell’ordine, soprattutto quando questi sono militari, il tentativo è quello di aprire un varco in un mondo costellato di silenzi e indifferenza. Il fenomeno, ritenuto “dai più” un tabù, va invece affrontato e analizzato.
E questo è stato fatto ieri, negli ambiti del convegno organizzato a Firenze dal Silf Toscana e al quale ha preso parte tra i relatori, Monica Giorgi, presidente del Nuovo Sindacato Carabinieri.
È noto l’impegno e lo studio della nostra organizzazione sindacale sul tema dei suicidi. È noto anche, come le azioni sindacali intraprese ad ogni livello, mirano al riconoscimento di questo fenomeno come conclamato e alla risoluzione dello stesso mediante interventi che possano essere d’aiuto per i Carabinieri e non pregiudizievoli, motivo per il quale il Nuovo Sindacato Carabinieri ha sottoscritto nel tempo diverse convenzioni con specialisti esterni che possano ascoltare e non giudicare, l’uomo prima ancora che il Carabiniere.
La presidente Monica Giorgi, durante il suo intervento, ha provato ad analizzare il fenomeno e a fornire soluzioni in tal senso. Lo ha definito “fenomeno multifattoriale” dalle diverse sfumature e che può trarre origine da diverse insidie presenti nella vita di ognuno. La Giorgi ha anche analizzato come il fattore gerarchico sia influente nel fenomeno, anche nella “parte più bassa” della scala, dove comunque le responsabilità non mancano e sulla quale pesa il giudizio e la discrezionalità dei superiori che relegano anni e anni di carriera di un militare in strada, in poche righe di note caratteristiche.
E qui, entra in gioco il concetto di “vocazione” ampiamente affrontato dalla Giorgi. Vocazione intesa come il richiamo alla propria missione, il sentirla parte di sé, aspetto che viene man mano a disintegrarsi quando a questa vengono contrapposti solo i “talenti”.
Talenti che, per funzionare, andrebbero messi al servizio di quella vocazione che spinge il militare ad arruolarsi.
Si tratta di un aspetto che non va sottovalutato, perché quando sentiamo di militari che arrivano a compiere l’estremo gesto anche per la disponibilità che hanno dell’arma in dotazione, non dobbiamo pensare che questi lo abbiano fatto perché deboli: sarebbe opportuno dire che questi lo fanno perché si sentono “svuotati”, demotivati. Privati di quella vocazione che va oltre la vita stessa, perché il militare che la sente, che si arruola – lo sappiamo bene – affronta la quotidianità con la consapevolezza di non tornare a casa, perché conscio dei rischi che corre in strada; affronta la quotidianità con la consapevolezza che un provvedimento disciplinare possa deturpare la sua carriera; affronta la quotidianità con la consapevolezza che il suo operato, i suoi sacrifici, i rischi che ha corso, se ritenuti da un superiore “inferiore alla media” per due anni consecutivi, rischiano di fargli perdere il lavoro.
Questo e tanto altro, “svuotano” il militare. Chi arriva a compiere un gesto del genere è perché non ce la fa più: non è debole, non è malato di mente e soprattutto, non ne ha tutte le colpe.
L’intervento di Monica Giorgi a partire dal minuto 01.35.00