«Nel nostro mestiere, ossia quello del Carabiniere, quello che facciamo inevitabilmente definisce chi siamo. Sono cose che ci portiamo dietro per il resto della nostra vita, perché siamo Carabinieri anche dopo aver smontato dal servizio. Partendo da questo presupposto, potete dunque immaginare il cortocircuito che può provocare in un collega l’entrata in un meccanismo che lo fa percepire, a suo avviso ingiustamente, come sbagliato, escluso, negativamente giudicato magari dai suoi superiori o dai suoi pari per un x motivo, che alla lunga potrebbe portarlo a rischiare di perdere il suo posto di lavoro, oppure a condizionare fortemente il suo benessere, la sua qualità della vita all’interno del contesto lavorativo. Parlo di sanzioni disciplinari, blocco dell’avanzamento di carriera, trasferimenti di sede immotivati».
Così Monica Giorgi, Presidente del Nuovo Sindacato Carabinieri (NSC), nel suo intervento al convegno ‘La gestione del disagio psico-lavorativo nelle Forze Armate e nelle Forze di Polizia’ che si è tenuto venerdì mattina presso la Sala Mechelli del Consiglio Regionale del Lazio.
«Alla luce di ciò – continua Giorgi – non possiamo chiedere al lavoro di definire tutto il senso della vita. Non possiamo pretendere che definisca appieno la nostra identità. Come esseri umani siamo complessi, mutevoli, abbiamo bisogno di strumenti molteplici per esprimere ciò che siamo. Intendiamoci: non c’è alcunché di sbagliato nel lavoro in sé. Il problema risiede quando si rischia di farlo percepire come necessario a dignificare la vita, possibilità valida e fattibile solo per un numero esiguo di individui. Non si può colpevolizzare il singolo per un problema che è molto più grande di lui. Se uno spazio è inquinato, la colpa della malattia non può essere del malato. Dovremmo iniziare a vedere, in certi contesti, il disagio come un fenomeno, un problema potenzialmente sistemico, innescato da altri problemi/condizionamenti sistemici presenti in quell’ambiente. Non è meramente un tema individuale e la possibilità di affrontarlo correttamente dipende molto poco dal singolo individuo alle prese con le proprie beghe. Serve appunto mettersi a tavolino per cercare di cambiare le cose. Per salvare e migliorare le vite dei colleghi, che in silenzio fanno altrettanto, quotidianamente, con quelle dei cittadini».